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Conforme alla gloria, Demetrio Paolin

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Recensione di Conforme alla gloria, di Demetrio Paolin. Pubblicato da Voland e giunto tra i 12 candidati al Premio Strega 2016, racconta il Male che avvelena e infetta ogni cosa.

Recensione di Conforme alla gloria: a dirla tutta mi dà noia definirla recensione. Sai che penso che le recensioni sono scritte da esperti in materia letteraria e hanno delle caratteristiche ben precise, ma devo necessariamente ammettere che questo mio commento è davvero molto, molto personale. Lo è per quanto riguarda l’esperienza di lettura, l’interpretazione delle vicende e dei personaggi, infine per le più che soggettive riflessioni sul Male, qui appena abbozzate. Cerco di essere entro certi limiti oggettiva e di arrivare il prima possibile al dunque.

Conforme alla gloria: la trama

Quando muore suo padre Heinrich, Rudolf non sa interpretare i propri sentimenti. Il suo primo pensiero è quello di liberarsi quanto prima dell’eredità paterna, per lo meno quella materiale. Che sia stato figlio di una SS convinta e felice delle proprie scelte – scelte e azioni da nazista, ovvio – non è per Rudolf un’eredita di cui è possibile disfarsi. Rudolf decide di vendere la casa che il padre gli lascia in eredità, ma nel corso del trasloco la sua attenzione è attirata da una tela, che scopre essere di pelle umana. Il macabro quadro diventa per Rudolf un’ossessione, la prova che il Male s’è irrimediabilmente impossessato di lui, di tutti.  Mentre questo accade a Rudolf in Germania, in Italia Enea trova il suo modo di esprimere il senso di colpa e la vergogna che lo accompagnano da quando, fatto prigioniero, ha incontrato e operato il Male.

Riflessioni su Conforme alla gloria

Attenzione, da qui in poi spoilero inevitabilmente. Non so dirti in che misura Conforme alla gloria mi sia piaciuto. All’inizio ho fatto fatica a leggerlo, perché mi cerco letture drammatiche, ma resto pur sempre particolarmente sensibile a immagini di soprusi e torture. Ho dovuto superare lo scoglio della prima parte del libro, ambientata interamente in Germania. D’altra parte, il bello del libro sta nella vicenda personale di Enea.

Enea è l’autore dell’ “opera”, del quadro di pelle umana che Rudolf porta in giro per la Germania, allo scopo di far conoscere il meglio della perversione umana.  Per Enea il quadro è una vergogna, per Rudolf una testimonianza. Le vite dei due uomini non possono prescindere da quanto accaduto nella Germania di Hitler e nel campo di Mauthausen. Quella di Rudolf è un’eredità non richiesta, che gli pesa addosso come un macigno: è per questo che il quadro riesce a impossessarsi di lui, che vuol rendere tutti partecipi di questa colpa. Similmente, la vita di Enea ha senso solo alla luce dell’esperienza di Mauthausen: l’esistenza passa, giorno dopo giorno, come un flusso di ore, ricordi e pensieri, sale in aria come la cenere e il fumo delle sigarette di Heinrich. L’esistenza prende senso solo in virtù del Dolore e del Male di cui Enea stesso s’è reso partecipe e testimone.

“Guarda, lo hai fatto tu. E’ tuo.” A queste parole, osserva il ragazzo vacillare. (…) Heinrich ride: “Tu, ragazzino, sei uguale a me, il quadro ne è dimostrazione. E’ questa la nostra vera vittoria, perché nessuno ti crederà se racconterai ciò di cui sei colpevole. Tu ormai sei come me.”

Sia Enea che Rudolf, in un certo senso, sembrano malati: è come se Heinrich fosse stato capace di avvelenarli. La sostanziale differenza tra loro ed Heinrich è nel grado di consapevolezza. Heinrich non rinnega nulla, fino alla fine, perché la sua è sempre stata una filosofia di vita, fondata sull’idea che il debole vada allontanato e schiacciato: da una parte ci sono i deboli, dall’altra gli esseri umani; i deboli non sono umani e possono essere estirpati dal mondo. Quella di Heinrich è una logica chiara e lineare, un sillogismo, che fa leva su di un principio del tutto naturale: il Male fa parte dell’essenza di ogni essere umano e non-umano. Rudolf comprende molto tardi di aver compiuto il male, anche volendo operare intenzionalmente in bene. Piuttosto, Enea è consapevole che:

Tutti possono raccontare il lager, ma provarlo è diverso. Come posso comunicare a chi mi ascolta il mio dolore? Cosa si prova a ricevere una nerbata nella schiena? A parole è impossibile, le parole sono povere, anche le immagini sono poca cosa. L’unico modo sarebbe dare una nerbata sulla schiena del mio interlocutore; in questo modo rivivrebbe l’esatta misura della mia esperienza. Per essere testimoni dobbiamo farci aguzzini.*

 

*devo dire che questo passaggio mi ha fatto molto pensare a Ludwig Wittgenstein e alla raccolta di saggi Esperienza privata e dati di senso, studiato all’università.

Non mi piace pensare che siamo vittime del Male; tendo a pensare che effettivamente ne siamo tutti portatori e “liberamente” scegliamo se operarlo o meno. Aprire la pagina di Wikipedia per reperire ulteriori informazioni su Mauthausen già è stato abbastanza traumatico, anche se in fondo non ho letto niente di cui non sapessi già. Ogni volta è comunque come una doccia gelata: non mi capacito della lucidità con cui si sia potuto operare in quel modo, senza impedirlo. Il senso di spaesamento passa presto – sì, mi sento spaesata, gettata* in un universo a cui mi rifiuto di appartenere . Avviene quel processo di normalizzazione che Demetrio Paolin fa descrivere ad Enea, nelle ultime pagine del libro. Arriva un momento in cui ogni cosa sembra del tutto normale: che gli italiani siano i primi in classifica per il turismo sessuale; che gli attentatori di Dacca abbiano inflitto ferite alle vittime per non farli morire immediatamente; che l’ISIS – pare, e spero sia una bufala – usi Telegram per vendere schiave bambine; che un demente di estrema destra uccida un nigeriano; che la signora seduta accanto a me nel tram chieda, del tutto ingenuamente, se un nero quando si guarda allo specchio sia contento di essere nero. Mi fermo qui, per restare ai fatti dell’ultima ora. Potremmo andare indietro nel tempo, ad Ulisse che getta nella rupe il figlio di Ettore.

*gettata anche come Heidegger intende – filosofo nazista del cavolo, mi hanno fatto una testa così!

Il nazismo non ha vinto, mai vincerà: è un’espressione del Male, come tutte le altre. Il Male è sempre stato e sempre esisterà, in forme più o meno simili e tranquillamente ripetibili. Ho creduto per qualche momento che il buon senso potesse prevalere, ma ho cambiato idea quando mi sono resa conto di essere io stessa portatrice sana di un germe malefico, che contempla la vendetta se dovesse accadere qualcosa a miei cari. E sono educata e pacata, credo nei diritti umani, non sopporto le ingiustizie: fondamentalmente non torcerei un’ala a una mosca, ma farei molto male all’aguzzino delle persone a me più care.

Conforme alla gloria in conclusione

Dopo queste mille parole, posso dire che il libro in sé scivola, ma per me non scivolava. Voglio dire che avevo la sensazione di essere immersa in un mezzo vischioso, che mi ha fatto percepire 250 pagine come se ne fossero 500. Non voglio affatto dire che lo stile sia pesante o che il libro sia noioso, perché non è così. Questa è una percezione che mi ha accompagnato durante la lettura e che si è andata associando alla fretta di arrivare al culmine: la scena dell’incontro tra Heinrich ed Enea, ad opera realizzata. E’ come se avessi letto, muovendomi in un liquido denso, nell’attesa che l’Orrore si presentasse finalmente ai miei occhi. Ero così in attesa che tanti episodi narrati mi sono sembrati anche ridondanti, ma probabilmente non lo erano affatto. Come vedi questa esperienza di lettura è stata molto particolare ed ecco spiegato il senso della mia premessa iniziale.

Spero di essere stata utile con questo mio commento e di riaverti qui, nel mio spazio virtuale. Eh lo so, percepisci una freddezza che altre volte leggendomi non hai sentito, ma non vedo altra tonalità emotiva che possa accompagnare questo genere di riflessioni. A presto,

Bruna

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