Uomini e topi è uno dei capolavori di John Steinbeck. Ad oggi, sono esattamente 80 anni dalla sua pubblicazione. Colgo così l’occasione per parlartene, dato che si tratta di un romanzo che ho amato tanto.
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Uomini e topi: George e Lennie
Uomini e Topi è la storia di due persone semplici, umili braccianti di quegli Stati Uniti d’America tanto raccontati e documentati da Steinbeck. Sognano di riuscire, un giorno, a guadagnare abbastanza per acquistare il proprio pezzo di terra, per coltivarla e vivere di essa. I desideri di George Milton e di Lennie Small (ironia?), in realtà, sono condivisi da tantissimi altri lavoratori stagionali che, esattamente come loro, mandano all’aria ogni progetto: gioco d’azzardo e donne vincono sempre su tutto, prosciugando ogni loro risparmio. La vita di George, Lennie e dei loro compari va avanti così: ci si trascina nei campi, ubriachi, nei capannoni giocando a carte, verso qualche casa chiusa.
Tuttavia, George e Lennie rappresentano un caso anomalo. Gli stagionali stanno assieme solo quando lavorano, ma si spostano da soli; si aggregano in poche occasioni, ma per il resto sono lupi solitari. George e Lennie, invece, si muovono sempre assieme e non potrebbero fare diversamente: a George manca l’indifferenza – diremmo pure strafottenza, per rendere meglio l’idea. Se ogni bracciante non pensa che a se stesso e a come sopravvivere, George pensa a sé ma anche a Lennie, che è un gran bel problema lasciato libero di vagare nelle campagne.
Il mondo dei lavoratori stagionali è stato studiato da John Steinbeck in modo molto approfondito. La sua attività di narratore s’è sempre accompagnata all’attività giornalistica. L’opera Uomini e topi è quindi assolutamente realistica e straziante. Fin da subito il lettore sente di essere trascinato, inesorabilmente e senza poter opporre la minima resistenza, verso un tragico finale.
Realismo e diversità in Uomini e topi
Come dicevo, il problema è Lennie. Anzi, i problemi sono due: Lennie e tutti gli altri. La vita dei lavoratori stagionali è dura, obbedisce a regole minime di civiltà; grossomodo, ognuno si preoccupa di procurarsi la propria pagnotta e di certo non si pone il problema di come se la cavi il vicino. Anche i neri, per quanto discriminati, in questo contesto grezzo e volgare, discriminano i bianchi: disprezzano per non essere disprezzati. È un mondo per nulla solidale, profondamente egoista, in cui un soggetto debole come Lennie è destinato a soccombere. Non c’è spazio per la comprensione di un essere ingenuo, certo forte fisicamente, ma debole e limitato mentalmente. Nelle vaste piantagioni dell’Est, non c’è tempo da perdere dietro a un soggetto che crea solo scompiglio.
Lennie è diverso; volendo utilizzare un’espressione più moderna, Lennie è quello con i disturbi comportamentali, con i disagi psicomotori. Una diversamente abile a far cosa non si sa. Definiamolo come più vogliamo, ma il contesto in cui si trova a vivere non è adatto a lui, che è un gigante buono.
George lo sa bene ed è per questo che lo tiene d’occhio e lo porta con sé. Come potrebbe mai sopravvivere una persona così? Chi si occuperebbe di lui? Nessuno. Nonostante ogni attenzione, qualcosa sfugge a George e avviene l’irreparabile.
Uomini e topi è un calcio sui denti e ti lascia dentro una grande senso di amarezza. D’altra parte è un’opera che considero monumentale, non per la mole ovviamente. Questo romanzo è un documento storico, che però offre l’occasione per riflettere sulla diversità e la solidarietà. E dirò di più, consapevole che il mio pensiero può apparire estremo, per qualcuno: per quanto amaro, il finale di Uomini e topi è magnifico. Mi metto nei panni di chi vuole essere di sostegno alle persone più deboli, ma si trova suo malgrado in una situazione al limite del concepibile; mi chiedo se George sia da biasimare e mi viene del tutto naturale e spontaneo dire di no. Avrei fatto come George, avrei usato pietà e avrei evitato a Lennie di finire nelle mani di chi lo avrebbe trattato da volgare e consapevole assassino. Non a caso, nel discorso tenuto il 10 dicembre 1962, quando a John Steinbeck fu consegnato il Premio Nobel per la letteratura, lo scrittore parlò della letteratura come bisogno umano.
La letteratura è una necessità, un desiderio che emerge dal nostro intimo quando crescono dentro di noi anche paura e disperazione. Per Steinbeck allo scrittore spetta il compito di cantare della debolezza, ma anche e soprattutto della forza umana, quella che rende ancora possibile, ai singoli individui, di essere nobili di spirito e praticare atti amorevoli.
Credo che George rappresenti quell’essere umano capace, nonostante tutto, ancora di praticare atti caritatevoli. Non posso che continuare a ringraziare Mr. S per avermi regalato questo capolavoro. A presto,
Bruna Athena
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