Cara Doris,
ti ho letto solo una volta in vita e non ho ancora avuto modo di riprendere una tua opera: lo farò, senza dubbio. Con te si è incisa nella mia mente un’idea: se uno scrittore è stato insignito del più grande premio della categoria, c’è un motivo chiaro ed evidente come le idee di Cartesio!
Non mi sembra il caso di fare filosofia adesso, ma, Doris, ho letto Il quinto figlio e mi sono resa conto di avere davanti un colosso della letteratura. Perché solo un colosso può scrivere di una tematica così delicata e così dolorosa senza retorica, senza pietà, senza insensibilità. Come si fa ad essere privi di compatimento e, assieme, non sembrare insensibili? Si può, se si nasce con la tua penna.
Mi chiedo come sarebbe stato parlare con te, con una donna che sa scrivere come donna e come uomo – la scrittura può avere un genere? a volte mi sembra che ce l’abbia, ma tu sei stata ermafrodito. Mi chiedo come sarebbe stato avere a che fare con una persona che ha saputo incidere nell’animo dell’essere umano, scavarlo fino in fondo e trovarne il peggio del peggio, tirandolo fuori e mostrandolo agli occhi di tutti. Come hai fatto a scrivere di un padre che rifiuta un figlio, di un figlio mostruoso, di una madre che ama un mostro? Come sei riuscita a raccontare della più alta forma di superbia che può appartenere all’essere umano: voler essere felici, sempre, tanto da rifiutare tutto quel che va storto, tanto da voler negare la realtà?
Tu hai potuto e sono convinta che non può farlo chiunque. No. Non è cosa da tutti. Si può nascere con questa abilità, che si può esercitare, ma se si è destinati a metterla al servizio della letteratura. Al momento, mi sento destinata a leggerti ed apprezzarti di nuovo. Con affetto e una buona dose di reverenza,
Bruna
