Home » Viaggi » America » Brasile » Visita alla favela di Santa Marta di Rio de Janeiro

Visita alla favela di Santa Marta di Rio de Janeiro

visita_favela_santa_marta

La favela di Santa Marta è solo una delle numerose favelas che formano Rio de Janeiro, che non è esattamente un paesello. A fare due calcoli, la popolazione carioca che vive in una favela è pari a circa tutta la popolazione di Napoli.

Be’, a questo punto è chiaro: qui è dove voglio, finalmente, raccontare questa esperienza della visita alla favela. E sono trascorsi quasi 3 anni da quando l’ho vissuta. Il ricordo è vividissimo, non corro il rischio di scrivere corbellerie.

Perché ho visitato la favela di Santa Marta

Santa Marta è un favela situata nel quartiere Botafogo, nell’area sud di Rio de Janeiro. Come ci siamo trovati a visitarla? Le cose sono andate più o meno così:

Mr.S: “Vogliamo prenotare il tour della favela di Santa Marta?”

Io: “Uhm…”

Mr.S: “Hai paura? Lo sai, si può andare solo con una guida. Con la guida è tranquillo.”

Io: “Mmmmm…no, non è questo.”

Mr.S: “Dai, andiamo!”

Io: “Ma ti pare normale che io debba metter piede in un posto così povero come se stessi andando allo zoo?”

Mr.S: “La guida è del posto e saprà spiegarci cose che non sappiamo. Sono curioso!”

Io: “Uhm…forse hai ragione. Prenota, e speriamo bene.”

Insomma, non volevo andarci e non era perché mi sentissi in pericolo. So bene che, andando in giro con la guida, il turista non rischia: i tour, in fin dei conti, sono un business per i brasiliani.

Piuttosto, provavo un forte senso di fastidio: mi sembrava di invadere uno spazio, senza capirlo, con la curiosità dell’osservatore che si diverte a fissare gli umani che se fossero le scimmie nella gabbia.

Favela di Santa Marta

Però la prospettiva di Mr.S non mi sembrava distorta: forse l’unica possibilità per sapere (a grandi linee) come funzionano le cose era entrare nella favela. E così ci siamo entrati.

La visita a Santa Marta

La nostra guida si chiamava Julian. Era un ragazzo della favela, un po’ più giovane di noi e in grado di parlare in inglese (in Brasile non è affatto scontato che si parli inglese). Abbiamo fatto la visita con un altro giovane studente di Roma, che studiava a San Paolo ed era in viaggio per visitare il paese.

Il romano (non ricordo il nome) ha chiesto se si potessero fare foto liberamente. La risposta di Julian è stata molto chiara e (ai miei occhi del tutto) ragionevole: no, avrebbe detto lui dove e quando avremmo potuto scattare fotografie.

“Potremmo incrociare donne che passeggiano per strada in perizoma, uomini armati. Ciò, qui, è normale. Ma non amano sentirsi osservati come se fossero animali.”

Ma davvero?! Poco male. Anzi, decisamente molto meglio. Appurato questo, ci siamo inoltrati nelle strade della favela. Oddio, le strade della “parte bassa” non sono la vera favela, quella “storica”.

Mirador di Santa Marta, Rio

Al principio, ho avuto l’impressione di essere in un quartiere non ricco, popolare, confusionario. I saloon non erano altro che bancarelle di parrucchiere che, secondo modalità a me del tutto ignote, riuscivano almeno ad attaccare da qualche parte l’asciugacapelli per la messa in piega.

Insomma, al principio, è stato solo un passeggiare tra donne con la stagnola in testa e motorini (questi ultimi mi hanno fatto sentire molto a casa). Poi ho capito che la farsi barba e capelli con la sedia per strada è una roba molto comune lì.

Julian avrebbe voluto partire dall’alto, ma il piano inclinato (la funicolare) della favela era in parte fuori uso. Ci è toccato salire a piedi. Ed è qui che l’esperienza ha iniziato ad assumere connotati surreali – surreale per una donna bianca occidentale, ficchiamocelo in testa.

La vera favela non è fatta di strade, ma di scale. È un ammasso disordinato di mattoni e lamiera, qualche edificio verniciato, ma più di frequente no. È fatta di canali di scolo all’aria aperta, gente che sosta fuori casa come i napoletani ciondolano presso le porte dei vasci (i bassi, gli appartamenti fronte strada), galline cani gatti che sguazzano in non si sa bene cosa (lo sapevo in cosa, ma volevo fingere di non saperlo), persone che come arredamento per la camera da letto ha giusto il materasso, gettatato a terra, condiviso tra fratellini e sorelline tutti con la testa immersa nello smartphone.

Dona Marta, favela

L’esperienza trascendentale era ripida, sporca, faticosa e grondava sudore da tutti i pori. Non avevo idea di quanto camminare (scalare, dovrei dire) una favela brasiliana potessere essere più stancante del camminare nei nostri deliziosi borghi medievali arroccati – con quelle VIUZZE, che belle!

In uno stato di assoluta confusione, generato da questa umidissima scalata, abbiamo fatto le prime due tappe: le caselle postali e l’asilo nido. È da questo momento che abbiamo cominciato a capire qualcosina di tutto quell’ambaradan di scalette, lamiere e galline.

Santa Marta

La crescita mostruosa della favela è stata in parte voluta e in parte fuori controllo. In origine, nelle favelas non viveva che il grosso della popolazione afrobrasiliana di Rio. A questa moltitudine, si è aggiunta un’altra moltitudine: le persone che provenivano dalle regioni più aride e depresse del Paese, in cerca di qualcosa di meglio.

Ma Rio è stata sempre parecchio dura, con la maggioranza, e le cose non sono andate come previsto. Così le persone si sono riversate tutte in questi quartieri che si andavano espandendo sotto una spinta quasi entropica: totalmente caotica, priva di regole e poco pratica. Jorge Amado la racconta, ironicamente, davvero bene questa crudeltà di Rio – nota bene: le favelas esistono in tutto il Brasile.

Leggi anche In giro per le Americhe

In realtà, il fitto intrigo di “strade” fa comodo a chi delinque: per le forze di polizia è quasi del tutto impossibile penetrare nella parte alta della favela. La “città vecchia” è inespugnabile.

Non lo è, però, per le aziende che forniscono alla cittadinanza acqua, luce, gas, internet e tv. Però ciò non toglie che le persone abbiano avuto la necessità di organizzarsi in qualche modo, per vivere meglio. Ecco perché Julian ci ha portati al centro postale e all’asilo.

Per i postini è impossibile trovare i destinatari delle missive. Allora hanno pensato di creare le caselle postali e di sfruttare la solidarietà: chi passa prende la posta e la porta, quanto meno, ai propri conoscenti – forse il servizio è più efficiente di Poste Italiane.

Per l’asilo nido la faccenda è più complessa. Sbaglieresti a credere che poiché la favela è fatta di poveri, allora il grosso delle donne non lavora, quindi l’asilo nido sarebbe inutile.

Ed è qui che l’esperienza surreale arriva all’apice della sua sudaticcia parabola.

Nella favela non ci vivono solo i poverissimi, le prostitute, i prostituti, gli spacciatori, i rapinatori e gli assassini. No! Se il tuo onorario mensile, in Italia, è quello medio da dipendente (privato o pubblico non fa la differenza), allora in Brasile vivresti anche tu in una favela e io ti farei compagnia.

Insomma, a un certo punto abbiamo capito che il grosso delle persone “normali” vive in una specie di baraccopoli. Ragion per cui, due stipendi servono eccome! Il punto è che serve anche un posto dove far stare i bambini molto piccoli.

Visto che la necessità aguzza l’ingegno, la cittadinanza si è organizzata per fare il proprio asilo nido. Al momento della visita, 9 bambini su 10 erano afro-brasiliani, ovviamente.

Michael Jackson, Santa Marta

Le autorità politiche hanno premiato l’asilo con una bella targhetta, e stop. Be’, che vuoi pretendere di più? Le utenze le hai, lo smartphone pure, il panorama è fantastico, la funicolare in genere funziona, di cosa vorrebbero pure lamentarsi questi brasiliani di Santa Marta?

Il posto, poi, è diventato anche famoso grazie a Michael Jackson! Sì, perché alcune scene di uno dei due video musicali di They Don’t Care About Us sono state girate qui, oltre che a Salvador da Bahia.

Ma, inoltre, Santa Marta ha dato anche i natali a un atleta olimpico, che non è riuscito a schiodare i genitori da lì. E noi li abbiamo conosciuti i suoi vecchi: hanno sistemato la casa, ma non hanno intenzione di cambiare quartiere, perché i loro amici sono lì – della serie che sai cosa lasci, ma non sai cosa trovi.

Abbiamo parecchio parlato con Julian della presenza/assenza della politica nelle favelas brasiliane. Naturalmente, noi non abbiamo fatto altro che osservare cosa c’è giusto un pochino pochino sotto la punta dell’iceberg.

Dopo la lettura di The Passenger – Brasile (magari te ne parlerò più in là), sono riuscita anche a far combaciare alcuni pezzi del puzzle.

Spiaggia di Botafogo
Spiaggia a Botafogo

In Brasile, dove evadere il fisco è quasi impossibile, gran parte dei servizi forniti agli abitanti delle favelas arriva senza problemi. La funicolare è gratuita, perché viene fornita energia a costo 0. Ma soprattutto, è importante che vi arrivino la televisione e internet, pur se a prezzi stracciati.

È facile comprendere il perché: il Brasile ama il calcio, ama le serie tv, ama i social network. E quindi ti spieghi perché il letto non c’è, un vero tetto nemmeno, ma lo smartphone sì.

E se usi Instagram e le sue Storie, scrivi “Link in bio”: gli stickers sono disponibili in sole due lingue, ossia inglese (scontato) e portoghese. Portoghese brasiliano, intendo dire, e ho realizzato che c’è un perché.

Rifacendo parte del percorso a ritroso, Julian ci ha detto che non ci eravamo accorti di esser passati davanti a un gruppo di uomini chiaramente armati. Sì, ricordavo il gruppetto che ci aveva osservato con attenzione, senza dare troppo nell’occhio. No, non avevo notato proprio niente.

La cosa non mi ha fatto né caldo né freddo: forse sono passata accanto a persone armate innumerevoli volte in vita mia, attraversando Piazza Garibaldi, le strade della Sanità, incrociando Via Tribunali, attraversando la piazza per acquistare i biglietti (di quella merdaccia) di Anm dal tabaccaio.

Non ho fissato niente e nessuno, però mi è sfuggito poco di quel che mi è passato sotto agli occhi, in ogni caso. E aveva ragione Mr.S, come credo di non dire il falso quando affermo che ci sono cose che si devono solo fare poterle capirle.

A presto,

Bruna* Athena

*un nome molto diffuso in Brasile!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.